PERCHÉ REGALARE IL RISO?

 

Il riso è un regalo utile, raffinato e di buon auspicio; in tutte le civiltà il riso è considerato ben augurante.

L’usanza del lancio del riso sugli sposi ha origine dalla tradizione cinese: un’antica leggenda narra che il Genio Buono, alla vista dei contadini colpiti da una grave carestia, sia stato mosso a pietà e abbia chiesto loro di irrigare, con l’acqua del fiume, il terreno in cui egli aveva disperso i propri denti. L’acqua trasformò i denti in semi, da cui germogliarono migliaia di piante di riso i cui frutti, una volta tolta la buccia, ricordavano i bianchi denti del Genio Buono: le piantine sfamarono per sempre l’intera popolazione. Da allora il riso divenne simbolo di abbondanza e prosperità e lanciarlo sugli sposi equivale ad augurare loro abbondanza, prosperità, fertilità ed un futuro di felicità e soddisfazioni.

In Cina la semina del riso divenne così una vera e propria cerimonia di stato, alla quale interveniva l’imperatore stesso con tutto il seguito di principi e dignitari: l’imperatore, riccamente vestito, entrava nella risaia, che dipendeva dal tempio e, con un aratro bardato a festa e trainato da una coppia di buoi bianchi, apriva quattro solchi, imitato dagli altri principi, che dovevano tracciare un numero di solchi crescente in rapporto inverso alla loro dignità. Il nobile raccolto di quel campo serviva per le offerte, per le occasioni speciali e per le anime dei morti illustri.

 

Anche nelle nostre usanze il riso è un elemento che presenta un forte carico di significati simbolici. In Italia, per augurare agli sposi fertilità e prosperità, si lancia il riso all’uscita dalla chiesa, subito dopo la cerimonia.

Questa tradizione è da ricondurre sia ad un antico rito greco secondo il quale, per propiziare la fertilità si facevano piovere sulla coppia dolci di riso, sia ad un’usanza romana: lanciare il riso sugli sposi, all’uscita dalla Chiesa, come gesto di buon auspicio per la fertilità della coppia. Il riso, più facile da trovare rispetto al grano e più scenografico, veniva affiancato anche da piccole pietre – poi diventate confetti e monete – per scacciare eventuali demoni.

I Romani tuttavia, lo ritenevano tanto raro e prezioso da pagarlo a peso d’oro e le matrone lo usavano per maschere di bellezza, mentre Galeno lo consigliava come rimedio alle malattie. L’uso in cucina era però molto raro, fatta eccezione per i gladiatori che se ne cibavano per essere ben nutriti e in forma per sostenere l’addestramento nella palestra (ludus), nonché per affrontare i ludi (spettacoli non cruenti, come le rappresentazioni teatrali e le corse di bighe o quadrighe che si svolgevano in occasione di solennità) ma, soprattutto, per affrontare i munera, ovvero i combattimenti mortali dei gladiatori che si svolgevano negli anfiteatri e, in epoca antecedente alla costruzione degli anfiteatri, nel foro oppure in ambienti opportunamente adattati. I gladiatori erano infatti sottoposti ad una dieta particolare, che era mirata alla funzionalità ottimale dell’organismo ed era organizzata dal lanista, ossia dal padrone del vivaio (o familia) cui essi appartenevano. I romani reputavano il riso uno dei cereali più nutrienti, leggeri e digeribili, che dava forza, vigore e prestanza senza appesantire il fisico e che risultava, altresì, essenziale per definire la forma perfetta e scultorea che il gladiatore doveva avere.

 

In COREA il tipico villaggio agricolo sorge nei pressi della risaia, ai piedi delle montagne, perché i contadini devono essere in grado di curare le piante di riso giorno per giorno, altrimenti, se trascurate, si dice che deperiscano come i bambini abbandonati.

La maggior parte dei villaggi coreani ha una banda nella quale i contadini suonano all’epoca del raccolto, durante le feste o dopo le cerimonie rituali in onore del dio del villaggio, che si svolgono, secondo il calendario lunare, il primo giorno di plenilunio, quando molti villaggi, specialmente nella parte meridionale della penisola, organizzano gare di tiro alla fune.

Il riso, soprattutto nei villaggi, è venerato come il dio della casa, il cui simbolo principale è un vasetto di vetro pieno di riso, che viene collocato nel cortile o all’interno della casa.

Una volta all’anno le casalinghe offrono al dio dolci di riso, chiedendo un buon raccolto per le fattorie e la salute per la famiglia.

 

 

In INDIA il riso fa parte di diversi riti propiziatori.

Le donne fanno disegni sull’uscio, con la farina di riso, per augurare buona salute agli abitanti della casa e sono solite offrire il riso alle divinità per riuscire a trovare un marito.

I rituali e lo svolgimento del matrimonio indù possono variare notevolmente, tuttavia nessun matrimonio è vincolante se non è completato dal rituale del Saptapadi, che è il rituale più importante del matrimonio vedico indù, poiché è il momento in cui il matrimonio viene riconosciuto legalmente dallo Stato: durante il rituale, la coppia compie sette passi attorno al fuoco sacro o lungo un percorso segnato da sette mucchietti di riso, simbolo di prosperità, pronunciando sette promesse. Dopo la cerimonia nuziale, la sposa colpisce, con la gamba destra il Kalash, un vaso pieno di riso, posto vicino alla casa dello sposo; solo dopo averlo colpito, la sposa fa il primo passo nella casa dello sposo: si crede che questo rituale sia fonte di vita e porti abbondanza di cibo, saggezza e salute.

Anche in India vi è l’usanza di gettare riso sulla testa degli sposi, che lo ricevono altresì in dono, come auspicio di prosperità e lunga vita e nel Rajasthan, quando una sposa entra per la prima volta nella nuova casa, si appone un recipiente colmo di riso sullo stipite della porta, per rinnovare l’augurio di felicità e prosperità.

Alla nascita di una figlia di un bramino (membro di una casta sacerdotale), questo allontana le donne e pone sul capo della bambina riso tinto di rosso per scacciare il malocchio.

Il riso viene utilizzato anche nei riti funebri durante i quali, al fine di preservare le anime dei defunti, si offrono palline di riso – dette Pinda – alla foto del defunto, ai corvi ed ai pesci.

La religione induista elabora i propri riti partendo dagli oggetti più umili e dalle azioni più comuni.

Così, ad esempio, durante la festa di Pongal, che si celebra in occasione del solstizio d’inverno nella regione del Tamil Nadu, gli ingredienti fondamentali sono un coccio in cui far cuocere il riso, il sole, le mucche e il riso stesso. Il Pongal è tradizionalmente dedicato al dio del sole Surya che fa uscire dall’acqua il riso, nutrimento e vita per l’uomo, e può durare da due a quattro giorni. Durante il secondo giorno si celebra il Grande Pongal, attraverso una serie di gesti che servono a ribadire e rafforzare i legami tra tutte le famiglie delle diverse caste del villaggio: ogni famiglia fa bollire la sua pentola di riso e si reca a offrirne delle porzioni su foglie di banana alle altre. Il Pongal più ricercato è quello zuccherato: numerose regole rituali presiedono alla cottura del riso, nella quale intervengono zucchero di canna, noce di cocco, uva passa, lenticchie fritte, cardamomo, zafferano e una punta di canfora commestibile. Ogni famiglia vanta la propria ricetta e, per i bambini, questa ghiottoneria rappresenta il centro della festa.

In India il riso è così sacro che non si può mangiarlo se prima non ci si è purificati con delle abluzioni.

In VIETNAM si racconta che nell’antichità un re, in punto di morte, incaricò i figli maggiori di mettersi alla ricerca del piatto più buono, meritevole di un re, da donare agli antenati quando si fosse presentato davanti a loro. Dopo tanto cercare, i figli ritornarono con le loro proposte, ma nessuna di esse appagò il padre. Allora il figlio più giovane decise di tentare anche lui l’impresa, invocando l’aiuto del genio protettore.
 Il genio gli propose di usare il riso, simbolo del cielo e della terra e di unirlo alla carne, simbolo degli uomini. Il giovane principe cucinò una torta di riso, rotonda come il cielo, da sovrapporre ad un’altra, di forma quadrata come si riteneva fosse allora la terra, con inserito uno strato di carne. Questa pietanza, avvolta in una foglia di banano, venne presentata al padre, a cui piacque così tanto che indicò il figlio minore come suo successore al trono: il piatto così preparato venne trasmesso nei secoli col nome di BANH CHUNG, il piatto nazionale vietnamita.

Tanto tempo fa i Tagalog, abitanti di Luzon, un’isola delle FILIPPINE, vivevano spostandosi lungo i fiumi dove la vegetazione era più rigogliosa. Un giorno, alcuni Tagalog, inseguendo un cervo con cerbottane e frecce, si allontanarono dal villaggio ed arrivarono fino alle montagne.

Seguendo le tracce dell’animale si inoltrarono nelle valli dove nessuno, sino ad allora, aveva mai osato arrivare; stanchi ed affamati decisero di riposare all’ombra di un albero.

Mentre erano seduti, videro un gruppo di uomini e donne che cucinavano, vestiti di una tunica bianca e con un nastro rosso legato intorno alla testa. Immediatamente i Tagalog si alzarono, perché capirono di essere di fronte a delle divinità: i Bathalas o servi di Dio. Questi ultimi invitarono i cacciatori a banchettare con loro ed insieme alla carne offrirono agli affamati cacciatori, mucchietti di bianchi granellini serviti su foglie di banano. I Bathalas, vedendoli diffidenti, dissero che si trattava di un ottimo cibo chiamato riso, che si otteneva da una piccola e graziosa pianticella.

Terminato il banchetto, offrirono ad ogni cacciatore un sacco pieno di pianticelle di riso spiegando loro che per coltivarle era necessaria molta acqua. Da quel giorno tutte le tribù delle Filippine impararono a coltivare il riso ed, avendo a disposizione cibo abbondante e nutriente, non ebbero più bisogno di spostarsi da un luogo all’altro.

In MALESIA ed INDONESIA si credeva che il riso avesse un’anima, chiamata semengat padi o indofa padi: una forza vitale insita negli oggetti magici e rappresentata con sembianze umane.

Questa concezione si manifesta in maniera ancora più accentuata in tutta una serie di espressioni affettuose usate dai Malesi nelle loro invocazioni e nei loro incantesimi rivolti all’anima del riso nel corso di diverse cerimonie, specialmente all’epoca del primo raccolto (menuai suhung). Questo modo di umanizzare il riso mostra la naturale tendenza dei Malesi a trattare tutto ciò che è umano con un rispetto, una considerazione ed una benevolenza estreme. Essi vedono nell’anima del riso un piccolo uomo o un nano di grandissima sensibilità, che si può offendere o ferire facilmente e che bisogna trattare con delicatezza come un lattante fragile e vulnerabile.

Su queste basi si sviluppano rituali e cerimonie complesse, dalla forte carica emotiva, che successivamente si sono evoluti in una specie di culto che accompagna tutto il ciclo della coltivazione del riso: a partire dalla fase iniziale, che è la scelta delle sementi e passando per le fasi della crescita delle piante, del trapianto e della sarchiatura, sino al primo raccolto, all’immagazzinamento finale ed alla prima degustazione, vengono celebrati diversi riti volti a mostrare l’importanza primordiale di ottenere un buon raccolto per risparmiare fame e carestia alla collettività. Si invocava l’anima “del piccolo uomo” affinché essa rimanesse nel riso e si implorava affinché la sua incarnazione non abbandonasse né il seme né la comunità.

Da qui l’usanza dei malesi a lanciare il riso subito dopo il matrimonio, con l’intento di trattenere l’anima dello sposo che, altrimenti, fuggirebbe via.

Continua il mese prossimo

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